La nostra vita è dominata dal lavoro. E se smettessimo di lavorare 8 ore al giorno?

Se chiedessimo a qualsiasi semplice cittadino, politico, sociologo, filosofo, scrittore, giornalista quale sia il problema più grande in Italia, la risposta sarebbe scontata: il lavoro. Se poi andassimo più nello specifico, interrogandoci su quale sia il problema con il lavoro nel nostro Paese, quasi tutti sarebbero d’accordo nel dire che scarseggia. Tutte le campagne elettorali fissano tra le loro promesse più importanti la creazione di nuovi posti di lavoro. È evidente che siamo una società fissata con il lavoro, e che ci siamo convinti che il nostro benessere aumenti insieme alla quantità di lavoro che accettiamo di svolgere. È il frutto di una cultura che sfocia nel personaggio ironico, ma tristemente vero, del Milanese Imbruttito. L’idea di svegliarsi la mattina per andare in ufficio, lavorare tantissimo e fino a tardi, essere sempre reperibili per una business call è associata a un modello di successo. Siamo così abituati a considerare l’ossessione per il lavoro una virtù che non riusciamo a capire che la vera virtù è pensare l’esatto opposto. Gli operai scendono in piazza per chiedere che sia rispettato il loro diritto al lavoro, chi non ce l’ha ne vuole uno, chi lavora venti ore a settimana vuole raddoppiarle. Cosa succederebbe se rovesciassimo il paradigma chiedendo il “diritto al non lavoro“ o, se vogliamo essere realistici, quello di lavorare meno?

Consultando gli archivi storici di giornali, pubbliche amministrazioni e sindacati, scopriamo che il tempo trascorso sul luogo di lavoro è drasticamente mutato nel corso del tempo. Alla fine del 1800 la giornata lavorativa era mediamente di sedici ore, in un ciclo continuo sonno-lavoro: ci si svegliava, si andava a lavorare, si tornava a casa e si andava a dormire. Nel 1902 venne approvata una legge che fissava a dodici ore massime la giornata lavorativa per le donne e i giovani fino ai 15 anni. Oggi lavorare dodici ore al giorno per sei giorni a settimana è giustamente considerato una tortura, ma per molti era la consuetudine agli inizi del Novecento. A cambiare le cose furono le proteste degli operai, appoggiati dai sindacati: il 2 marzo 1906 la Fiom stipulò un accordo con la società Itala per ridurre la giornata lavorativa a dieci ore e nel maggio dello stesso anno gli operai torinesi del settore metalmeccanico scesero in piazza per chiedere lo stesso trattamento.

In quegli anni di forte rivendicazione sociale della classe operaia, si fecero importanti passi in avanti, fino all’accordo del 1919 tra la Federazione degli industriali metallurgici e la Fiom in cui diventò realtà la giornata lavorativa di otto ore, per un totale massimo di quarantotto ore settimanali da distribuire in sei giorni. Mentre questo accordo si limitava al settore metallurgico, il Regio Decreto n. 692 del 1923 estese a tutte le categorie il modello delle otto ore massime giornaliere e delle quarantotto settimanali. Da quel momento, l’unico passo in avanti è rappresentato dal Decreto legislativo 66 dell’8 aprile 2003 che recepisce le disposizioni delle direttive comunitarie 93/104 CE e 2000/CE, fissando quaranta ore settimanali il limite massimo di lavoro, fatta eccezione per gli straordinari di otto ore settimanali. Immaginando di lavorare otto ore al giorno, aggiungendo il tempo necessario a prepararsi e per gli spostamenti e dormendo le canoniche otto ore per notte, con questo modello ci rimangono libere circa quattro o cinque ore al giorno.

Diverse statistiche hanno dimostrato l’importanza di investire sulla qualità della work life balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita privata. A livello pratico lo ha dimostrato l’azienda informatica svedese Filimundus con una sperimentazione all’avanguardia. L’amministratore delegato Linus Feldt ha deciso di ridurre la giornata lavorativa da otto a sei ore, senza però ridurre stipendi o benefit. I dipendenti hanno ricevuto la stessa paga mensile lavorando il 25% in meno del tempo, con risultati molto positivi. Anche se la produttività non ha subito variazioni, i dipendenti si sono detti più felici, concentrati ed efficaci nelle loro attività, mentre le assenze per malattia sono diminuite del 25%. L’idea che ridurre le ore lavorative migliori la qualità della vita e delle prestazioni dei dipendenti è ormai confermata da decine di diversi studi. Molti di questi sono riuniti nel libro dello scrittore Morten Hansen intitolato Great at Work, in cui l’autore evidenzia e prova l’efficacia di concentrare il lavoro in un lasso minore di tempo.

La diminuzione del monte ore settimanale avrebbe ripercussioni positive anche sui tassi di occupazione. Domenico De Masi, professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza di Roma, nel libro Lavoro 2025 ha rilevato che in Italia lavoriamo circa quaranta miliardi di ore l’anno, ovvero 1800 ore a persona. Per fare un paragone, in Francia le ore annuali pro capite sono 1482, mentre in Germania scendono a 1371. De Masi ha diviso le ore totali lavorate in Italia ogni anno, ovvero quaranta miliardi, per la media lavorativa annuale in Francia e Germania. Il risultato è che se nel nostro Paese lavorassimo quanto in Francia guadagneremmo sei milioni di posti di lavoro in più, che salirebbero a sei e mezzo se lavorassimo quanto i tedeschi. Si tratta di cifre enormi che fanno capire come il concetto sintetizzato nel “lavorare meno, lavorare tutti” non sia privo di fondamento.

Il Milanese Imbruttito direbbe che siamo degli sfaticati, dei “giargiana” (chi abita fuori Milano) e che nella vita bisogna fatturare 7 giorni su 7 e 24 ore su 24. Però è arrivato il momento di immaginare un futuro con impieghi più creativi e stimolanti e che ci lascino il tempo di dedicarci ai nostri hobby, alla nostra famiglia e alle relazioni. A dar forza a questa visione ci sono anche dei colossi dell’imprenditoria mondiale, come il cinese Jack Ma. Il fondatore e presidente del gruppo Alibaba (corrispondente orientale di Amazon), in diverse occasioni ha difeso l’importanza della work life balance: in un recente confronto con Elon Musk, ha affermato che “entro i prossimi trent’anni ci ritroveremo a lavorare per quattro ore al giorno distribuite in tre giorni settimanali”.

Se lo dicono anche alcuni tra i più influenti imprenditori del mondo, forse sarebbe il momento di aprire un dibattito pubblico costruttivo sulla giornata lavorativa. Il mondo si sviluppa e cambia con tempi rapidissimi che la politica non riesce più a seguire, perdendo la sua funzione di strumento per tutelare la qualità della vita dei cittadini. Dovrebbe tornare a occuparsene, partendo proprio dalla riduzione della giornata lavorativa. Dato che l’ultima modifica legislativa della giornata lavorativa risale a diversi decenni fa (a parte quella del 2003 che ha solamente recepito una direttiva europea), la legge deve trovare soluzioni adatte a cambiare il modello lavorativo italiano, prima che questo ceda del tutto alla filosofia dell’h24 e 7 giorni su 7.

Le giovani generazioni, in particolare i millennial, hanno bisogno di vivere in un mondo in cui il lavoro torni a essere un mezzo e non il fine della loro esistenza. Le scoperte scientifiche e lo sviluppo delle intelligenze artificiali in pochi anni faranno sì che diversi lavori, dall’impiegato bancario, all’assicuratore, fino all’operaio, potranno essere svolti senza una presenza umana. La nostra classe dirigente deve cogliere la portata rivoluzionaria di questi cambiamenti ed essere capace di immaginare soluzioni adatte agli scenari futuri.

In poco più di cento anni il tempo che passiamo lavorando è sostanzialmente dimezzato. Esattamente come un secolo fa, anche oggi esiste chi si oppone alla riduzione della giornata lavorativa, ma grazie a molti coraggiosi e visionari siamo riusciti a passare da sedici a otto ore al giorno passate in un ufficio o in fabbrica. Una conquista simile non deve però impedirci di immaginare un futuro prossimo in cui potremmo ridurle a quattro. Mai come oggi possiamo permetterci di pensare che il benessere e la felicità del nostro Paese coincidano con il motto “lavoriamo meno, lavoriamo tutti”.

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