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Scopre che bucce e torsi assorbono al 100 per cento il petrolio disperso negli oceani: “Ma con gli scarti faccio anche ecopelle, pannelli, piastrelle”
Lo scrittore Cesare Marchi lo chiamava «il frutto dal volto umano», con riferimento al cedimento di Eva nell’Eden. Dopo aver conosciuto Alberto Volcan, nomen omen, inventore bolzanino che erutta idee come fossero lapilli, sono giunto alla conclusione che la mela abbia assunto sembianze extraterrestri. Che sia una golden delicious o una stark, una gala o una fuji, una granny smith o una pink lady, un’annurca o una renetta, ecco in rapida sintesi che cosa riesce a fare, questo ingegnere di 79 anni, con bucce e torsi: ecopelle per scarpe, borse e abbigliamento; carta per stampanti; carta igienica; rotoloni asciugatutto; colla; pannelli per l’edilizia; piastrelle isolanti; mangimi; fertilizzanti; persino biscotti.
Pensate che l’ecopelle in mela puzzi? Errore: è inodore. Che sia poco robusta? Errore: ha una resistenza pari a 90 chili per millimetro quadrato. Che sia poco confortevole? Errore: ha superato 12.800 cicli di prova, rimanendo impermeabile. Che non riscaldi? Errore: si conforma in pochi minuti alla temperatura corporea e la mantiene. «Diciamo che se i nostri soldati avessero avuto gli scarponi in Melokraft, il Duce non avrebbe perso la campagna di Russia», sintetizza Volcan, sedicente «ricercatore ecologico e imprenditore vocazionale» che fin dal 2006 ha protetto la sua invenzione con un brevetto internazionale Pct ed è già stato oggetto di ben quattro tesi di laurea discusse nelle Università di Trento e Bolzano e alla Cattolica di Milano.
Ma la scoperta più stupefacente riguarda le proprietà degli scarti di mela essiccati e ridotti in polvere: inseriti nelle barriere di contenimento che vengono posate in mare per circoscrivere gli sversamenti accidentali di petrolio, sono in grado di assorbire al 100 per cento gli idrocarburi, lasciando le acque perfettamente pulite. Tenuto conto che soltanto dall’inizio del terzo millennio vi sono stati 30 disastri ambientali – l’ultimo, a maggio, ha ammorbato le spiagge di Santa Barbara in California – e che il greggio disperso negli oceani ammonta a circa 4 milioni di tonnellate l’anno, Volcan si candida a salvatore del pianeta.
Di cognome farebbe Volkan. In seguito agli accordi del 1939 fra Adolf Hitler e Benito Mussolini, i suoi genitori, contadini, optarono per l’italianizzazione, non volendo diventare cittadini del Terzo Reich. Più che tedesco, si sente turco: «I kan erano dignitari di Solimano il Magnifico giunti da queste parti con l’esercito ottomano che assediò Vienna nel 1529». Perito elettronico, dal 1955 al 1978 ha lavorato all’Iveco come addetto alla riparazione dei forni di fusione: «Arrivano fino a 1.800 gradi per cui due volte l’anno va rifatta la base. Ho vissuto più in fonderia che a casa». Era diventato un mago del settore, girava tutta l’Europa, ma lo chiamavano anche in Russia, Canada, Israele, Guinea. Aveva già 54 anni quando sentì il bisogno di laurearsi in ingegneria elettrotecnica all’Università di Gratz e di specializzarsi allo Joanneum, rinomato istituto di ricerca applicata che ha sede nella città austriaca.
La sua prima invenzione è il bruciatore volumetrico, che ricava energia dagli scarti degli olii combusti. Negli Stati Uniti, dove Volcan è andato di persona a montare la linea di produzione, lo utilizzano sia sugli aerei che superano la velocità del suono sia per spegnere le fiammelle sui pozzi di petrolio. Nel 1985 l’altoatesino diventa consulente dell’Olivetti. Lo mandano in Cina, a Kunming, a piantare la fabbrica da cui uscirà l’M24, il primo computer italiano che fa concorrenza all’Ibm. «Ho avuto modo di conoscere Bill Gates agli esordi. A Ivrea, dove veniva a proporci il sistema operativo Ms-Dos della sua Microsoft, lo snobbavano tutti. Per Elserino Piol e Bartolomeo Bertarione, padri del pc tricolore, era semplicemente “l’americano”, un intruso da cacciare. In America a quest’ora sarei miliardario come lui».
E invece?
«Per dare corpo ai miei sogni, ci ho solo rimesso 600.000 euro».
È troppo in anticipo sui tempi.
«Nel 1999 ho brevettato la prima lavastoviglie al mondo che funziona senz’acqua, senza detersivo e senza brillantante».
Ha detto senz’acqua?
«Sì. Un mio amico gestiva un rifugio a 3.000 metri sul Catinaccio. Per pulire le stoviglie, doveva sciogliere la neve. O usare la minerale in bottiglia. Consideri che solo per riportare a valle i rifiuti con l’elicottero spendeva 30 euro al chilo. Chiese il mio aiuto. Un giorno caddi su una biglia di vetro. Per punire la maledetta, la infilai in un forno a 500 gradi. Ma, anziché sciogliersi, ne uscì perfettamente ripulita. Ripetei l’esperimento con i piatti sporchi di ragù: stesso risultati, sterilizzati».
E allora com’è che a casa mia si usa ancora il Finish?
«Ho proposto la lavastoviglie, brevettata nel 1999, ai maggiori produttori di elettrodomestici. Mi rispondevano: “A che serve? Ce n’è tanta, di acqua”. Adesso, dopo 16 anni, si sono accorti che le risorse idriche scarseggiano e dalla Cina si è fatta viva l’Electrolux. Dalla Cina! Per questo le dico che in America avrei fatto fortuna. Bill Gates andava in banca con il suo bel progetto, la banca lo sottoponeva all’esame di qualche università e poi gli chiedeva: “Quanti soldi le servono?”. E sganciava».
Non sarà che i suoi progetti sembrano irrealizzabili?
«Irrealizzabili? Senta, nel 1997 ho creato per Andrea Merloni il primo scooter Benelli in Pet, costruito con 660 bottiglie di acqua minerale. Per anni ho prodotto gli orologi per l’Arma dei carabinieri con lo stesso materiale. I giganti della plastica, Montedison in testa, mi hanno azzannato. Oggi tutti inneggiano al riciclo».
Per il recupero degli scarti delle mele da che cosa ha preso spunto?
«Dal cimitero».
Prego?
«I miei genitori sono sepolti a Bronzolo. Lì vicino c’è una fabbrica che produce succhi di frutta: 70 tonnellate di scorie l’anno, una puzza infame. Mi sono fatto consegnare una quintalata di quella robaccia e l’ho essiccata nel forno di un mio amico a Rovigo. Poi l’ho macinata e ho portato la polvere a Paolo Bonaguro, amministratore della cartiera Favini di Rossano Veneto, che già aveva fatto la carta con le alghe della laguna di Venezia e con la farina di smog ottenuta dai fumi di combustione della fabbrica. È risultato che la polvere dei pomi conteneva il 70 per cento di cellulosa. Così è nata Cartamela, utilizzata come carta da lettera ufficiale dalla Provincia autonoma di Bolzano. L’aveva adottata anche monsignor Wilhelm Emil Egger, riposi in pace».
Il cappuccino che fu vescovo di Bolzano e Bressanone fino al 2008?
«Proprio lui. E sa che cosa mi diceva sempre? “Volcan, un motivo deve pur esserci se abbiamo identificato la mela con il frutto che cresceva nel Giardino dell’Eden”. Dopodiché ricevetti le diffide da quattro avvocati di Steve Jobs. Sostenevano che non potevo usare il simbolo della mela in quanto era il logo della Apple».
Che pretesa assurda.
«Ci siamo chiariti dopo 14 anni di scaramucce legali. Anzi, stiamo per diventare soci. È venuto a trovarmi Daniel Ku, proprietario della Iwi green plus di Taiwan, che collabora con Tim Cock, l’erede di Jobs. Produrremo le custodie in ecopelle Melokraft per cellulari e tablet della Apple».
L’ecopelle si fa soltanto con la mela?
«E altri vegetali. Penso ai carciofi. E ai pompelmi, che hanno una scorza di 1,5 centimetri. Oro puro. Si sono già fatti vivi gli iraniani, che bevono solo succhi di frutta e non hanno più deserti dove gettare gli scarti. Non che l’Alto Adige sia messo meglio: 500.000 tonnellate l’anno fra bucce e torsoli di mele, spesso destinati a impianti di biogas che però rendono appena l’1 per cento ed emettono diossina».
Brutta roba.
«Gli scarti delle mele dopo due giorni si ossidano e sviluppano aflatossine, fra le peggiori sostanze tossiche e cancerogene. Purtroppo ci sono allevatori che li danno da mangiare alle mucche e ai maiali. Una follia. Intendiamoci, anche mia nonna Emilia lo faceva, ma solo dopo averli bolliti. Sapienza contadina».
Come si fabbrica l’ecopelle?
«Mi sono rivolto ad Anzio Storci, divenuto primo costruttore al mondo di macchine per la pasta perché da giovane aiutò Pietro Barilla a portare due valigie fino in stazione e fu preso a benvolere dall’imprenditore. Ho montato nella sua fabbrica di Collecchio un impianto modificato che miscela acqua, farina di mela e un collante alimentare che la Henkel ha messo a punto per me. Invece della sfoglia per gli spaghetti esce un nastro di ecopelle, 6 millimetri di spessore. Lei consideri che una pelle di vacca misura 70 centimetri per 80. Io posso produrre una striscia di lunghezza infinita e larga anche 3 metri. I cinesi la useranno per farci i rivestimenti delle camere e delle cucine. In collaborazione con Giuseppe Tecco, un imprenditore di Cuneo che macina prodotti vegetali, sto creando un’ecopelle bianca ricavata dai tutoli del mais, cioè la parte interna delle pannocchie».
Immagino che sia biodegradabile.
«Altroché. Se la sotterri, viene attaccata dai microrganismi e si distrugge. La pelle normale no, perché è impregnata dal cloro e dai solventi della concia».
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Come ha scoperto che gli scarti di mela polverizzati debellano gli inquinamenti da petrolio?
«Merito dell’insonnia. Mi alzo alle 3, mangio una delle mie cinque mele quotidiane, e comincio a lavorare. Una notte m’è saltato in mente di rubare una calza di nylon a mia moglie, di riempirla con 150 grammi di farina di mela e di metterla a bagno in un mastello. Il giorno dopo il recipiente era asciutto e la calza pesava 2,5 chili. Allora ho preparato una seconda calza e ho versato nell’acqua 1 litro di gasolio. Ebbene, ha assorbito la nafta e lasciato l’acqua perfettamente pulita».
Com’è possibile?
«Non me lo chieda: lo ignoro. La chiami evoluzione della specie o come diavolo vuole. So soltanto che 1 chilo di mele essiccate assorbe 5 litri di petrolio. Luis Durnwalder, all’epoca presidente della Provincia autonoma di Bolzano, mi ha messo a disposizione Protezione civile e vigili del fuoco per sei mesi di test. Tutti coronati da successo».
Sta lavorando ad altre idee?
«Sempre. Il professor Fernando Alemanno, specializzato in anestesia e rianimazione, mi ha illustrato il problema del tubo che s’infila in bocca ai pazienti addormentati sul tavolo operatorio. L’anidride carbonica così aspirata è filtrata da un prodotto chimico che viene 15 euro al chilo. Ma, quel che è peggio, smaltire questa schifezza costa 20 volte tanto, 300 euro al chilo. “Studiami qualcosa di alternativo”, mi ha chiesto Alemanno. Detto fatto: l’alito può essere assorbito da pezzetti di calce solidificata con un procedimento di mia invenzione. E alla fine si danno da mangiare alle galline che se ne servono per fare i gusci delle uova».
Le uova all’alito fanno un po’ schifo.
«Scusi, eh, ma lei ha mai visto che cosa beccolano le galline? Se ne sta interessando anche la Marina per i militari chiusi dentro i sommergibili».
Abbiamo finito?
«Non ancora. Dopo un lustro di ricerche, mi sono procurato in un lago tedesco delle alghe che 2.000 anni fa erano batteri, diatomee per la precisione. Ho scoperto che 1 etto di esse assorbe 1,5 litri di pipì. Adesso sto collaborando con il colosso svedese Tena per la produzione di pannoloni e pannolini. La polvere delle diatomee, impastata con l’acqua, diventa una specie di tessuto con 2 micron di spessore. Ed è anche alimentare». (Ne piglia una presa da un sacchettino e la inghiotte). «Per cui i pannoloni finiranno in discarica con l’umido. Quelli in vendita oggi sono fatti invece di polimeri sintetici. Inceneriti a 250 gradi, sviluppano diossina. Ha idea di quanti se ne bruciano ogni giorno in questo mondo fatto di plastica e di vecchi?».
Pensa di arricchirsi con le sue invenzioni?
«È la povertà la ricchezza del mondo. Nel benessere non s’inventa nulla di nuovo. La crisi economica si sta rivelando una benedizione, perché solo nelle difficoltà gli uomini danno il meglio. I soldi non sono mai stati un problema, per me. Vado ancora in giro a riparare forni e ho persino 2.000 euro di pensione. Posso permettermi di continuare a cercare».