Dio è stato considerato una donna per i primi 200mila anni di vita umana sulla terra. Ma i culti patriarcali ce l’hanno fatto dimenticare.
Di Christobel Hastings; traduzione di Giulia Fornetti
“When all is said and done / You’ll believe God is a woman,” canta Ariana Grande in “God is a Woman”, immersa in un mare di tintura iridescente che ricorda l’anatomia femminile. Eppure le divinità femminili sono state considerate figure eretiche per millenni, e l’idea che Dio non sia un vecchio uomo bianco che troneggia nel regno dei cieli è ancora oggi un concetto destabilizzante per molti. (Basta pensare al dibattito sollevato dalla reinterpretazione di Harmonia Rosales della Creazione di Adamo di Michelangelo, in cui sia Dio, sia il primo essere umano sono raffigurati come due donne nere). Se però torniamo indietro fino alle origini della civiltà umana, notiamo che le divinità femminili sono state venerate per millenni. Ancora prima della nascita delle religioni contemporanee, durante le prime ere di sviluppo umano, molte civiltà adoravano divinità creatrici femminili.
Nel suo rivoluzionario libro del 1976, When God Was a Woman, la storica Merlin Stone presenta il culto della divinità femminile e ne ripercorre la storia fino all’era Paleolitica e Neolitica. Nel Vicino e Medio Oriente, scrive Stone, numerose testimonianze rivelano il legame profondo tra “il culto della divinità femminile in quest’area e l’origine di ogni religione successiva.” Questa Dea era la divinità suprema indiscussa; “creatrice e sovrana dell’universo, profeta, responsabile del destino degli esseri umani, inventrice, curatrice, cacciatrice e guida valorosa in battaglia.”
Diversi antropologi sostengono, inoltre, che le società del Paleolitico superiore fossero regolate da una struttura matriarcale, in cui le donne erano a capo delle famiglie e della società. Stone spiega che queste comunità osservavano il culto degli antenati, e quindi “il concetto del creatore della vita umana potrebbe esser stato formulato a partire dall’immagine di una donna, prima e ancestrale antenata dell’intero clan.” In altre parole, credevano nelle Divine Antenate. Infatti, gli antropologi che negli ultimi due secoli hanno studiato i rituali delle comunità paleolitiche hanno ritrovato moltissime statuette votive di donne incinte in Europa, Medio Oriente e India—alcune di queste risalgono anche al 25000 a.C.—che testimonierebbero il culto della divinità femminile.
Durante questo periodo, nel mondo antico, l’adorazione delle divinità femminili era ampiamente diffusa e molto potente. Sarà poi l’avvento dell’agricoltura, dopo l’età Paleolitica, a segnare l’ascesa della venerazione della Dea. Le statuette che rappresentano la Dea Madre sono state ritrovate in Cananea (oggi Palestrina/Israele), e Anatolia (attuale Turchia) e altre statue con divinità femminili sono state rinvenute tra le comunità che popolavano l’Egitto nel Neolitico, fino al 4000 a.C. “Le rappresentazioni della Dea nel mondo antico presentavano diverse variazioni sul tema,” scrive Lynn Rogers in Edgar Cayce and the Eternal Feminine, che parla di ritrovamenti sulla figura del Creatore donna nella terra Sumera, in Egitto, Creta, Grecia, Etiopia, Libia, India, Elam, Babilonia, Anatolia, Cananea, Irlanda e Mesopotamia. Nonostante le diverse interpretazioni, sul fatto che Lei, la divinità, fosse, come la descrive il mitologista Robert Graves “immortale, immutabile e onnipotente” non c’erano dubbi.
Nel libro Mother God, Sylvia Browne racconta la storia del principio femminile che si diffuse dopo il periodo Paleolitico. Gli Inuit avevano Sedna, la dea del mare e madre dell’oceano, mentre gli Assiri e i Babilonesi veneravano Ishtar, la dea dell’amore e della guerra. Nella cultura Azteca, Teleoinan era considerata la madre di tutti gli dei. Secondo gli antichi Egizi, Iside era la divinità dei bambini e della magia, mentre nell’antica cultura Sumera la divinità suprema era Inanna, dea della fertilità e della giustizia. Nel frattempo, gli antichi Fenici adoravano ben due divinità femminili di pari importanza: Anat, la dea della fertilità, e Astarte, dea Madre e identificata con il pianeta Venere. Creatrici dell’universo, di nuova vita, fonti di cultura, guerriere valorose e sagge consigliere, queste divinità erano profondamente radicate nella cultura e non certo figure improvvisate.
Già nel 1500 a.C., però, il culto della Dea femminile era ormai caduto in disgrazia. Gli studiosi non sono del tutto concordi sui motivi di questo cambiamento, ma molti esperti sostengono che la responsabilità sia principalmente di quelle religioni a predominanza maschile importate in Europa in seguito all’invasione della zona Indo-europea. La forte repressione che ne seguì, suggerisce uno scenario alquanto inquietante. “Agli albori della civiltà occidentale,” scrive Rogers, “25.000 anni di culto della Dea sono stati annientati in un attimo.” I miti della creazione furono riscritti, i simboli delle divinità femminili denigrati, e “l’antica credenza che la Dea fosse la Fonte dell’umanità e l’Universo da cui era emerso il Tutto, fu ribaltata completamente.”
Con l’ascesa di Giudaismo, Cristianesimo e Islam nel Medio Oriente e in Europa, le religioni monoteiste diedero vita a un nuovo ordine, esclusivamente maschile: Dio, Re, Padre. Nel suo scritto, Stone scrive a lungo dell’oblio delle divinità femminili, e sostiene che i culti femminili furono vittime di “secoli di persecuzioni e repressione violenta dai sostenitori delle nuove religioni che veneravano le divinità maschili come esseri superiori.”
Non tutte le religioni, però, oscurarono completamente la figura della divinità femminile. Nel libro The Path of the Mother, Savitri L. Bess osserva come gli Hindu, per esempio, non abbiano mai smesso di venerare le Madre. “La Madre, oscurata all’ombra delle religioni occidentali per migliaia di anni,” scrive, “è considerata la somma totale delle energie dell’universo,” Da Durga, la dea impavida che sconfisse i suoi nemici sul dorso di una tigre, a Saraswati, la divinità con quattro braccia guardiana della conoscenza, la ricca rappresentazione di divinità femminili nel culto Hindu evidenzia il potere del genere femminile, che raggiunge il culmine nella figura di Shakti, la forza divina chiamata anche “La Grande Madre.” Ci sono diverse rappresentazioni di Shakti, osserva Bess, ma la sua energia cosmica resta comunque responsabile della creazione dell’Universo; lei è “l’anima di tutte le cose, la grande forza che crea e distrugge, l’essenza primordiale, il ventre da cui tutto ha avuto origine e dove tutto è destinato a tornare.”
Anche il Buddismo celebra il principio femminile nella figura di Bodhisattva Guan Yin, che significa “colei che sente e vede le sofferenze del mondo.” Con bellezza, grazia e infinita compassione per il dolore dell’umanità, si dice che “il significato più profondo [di Yin] è la rappresentazione della femminilità divina.”
Alcuni sostengono che la progressiva eliminazione delle Dee sia stato un processo naturale di transizione verso la civiltà moderna. Ma, come osservato da teologi e studiosi, non è una coincidenza che le culture patriarcali che hanno avuto la meglio sulle popolazioni indigene siano strettamente collegate alla caduta in rovina delle divinità femminili, culti ora considerati volgari e primitivi.
Questo articolo è comparso originariamente su Broadly.
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