HOMO TROPICUS Per comprendere appieno perché la frutta sia l’alimento specifico della specie umana è necessario capire anche qual è il suo habitat specifico, dato che l’alimentazione specifica è un elemento, seppur centrale, dello stesso habitat specifico.
E’ evidente per chiunque che l’uomo civilizzato, a differenza degli altri esseri viventi e dell’uomo allo stato di natura, indossa vestiti, vive in case (o comunque in luoghi chiusi) ed ha bisogno di riscaldarsi durante l’inverno; già solo questi dati di fatto costituiscono la prova provata che l’uomo non è idoneo per vivere nei clima extratropicali (il fatto che anche molti popoli tropicali si vestano ed abbiano abitazioni è solo un portato culturale di lunga data ma non una necessità di natura). L’immagine archetipica dell’età dell’oro dell’umanità, in tutte le tradizioni e racconti storico-mitologici del pianeta, è rappresentata dalla vita che l’uomo conduceva nel paradiso terrestre, dove viveva libero, nudo, all’aria aperta, cibandosi solo di frutta (la parola paradiso non a caso deriva dal antico ebraico pardes che significa “frutteto”).
L’immagine archetipica è naturalmente ambientata in un luogo caldo tropicale, dove il clima e la disponibilità continua del cibo specifico consentono una vita libera e naturale. Ancora oggi d’altronde gli abitanti dei ricchi paesi industrializzati occidentali ambiscono passare le proprie vacanze in quelli che non a caso si chiamano paradisi tropicali. E’chiaro che questo impulso inconscio verso il caldo e i colori tropicali è ancestrale, iscritto nei nostri geni.
L’uomo è indiscutibilomente un animale tropicale. Le sue origini e la sua fisiologia forniscono indicazioni in tal senso inequivocabili. I resti fossili situano i primordi dell’umanità nella fascia tropicale (verosimilmente africana). Inoltre, l’uomo è un animale omeotermico, cioè che non conosce significative variazioni della temperatura corporea al cambiare di quella esterna, e la temperatura corporea si aggira mediamente intorno ai 37°, testimoniando che l’habitat specifico per il genere umano può essere solo quello caldo tropicale. Si aggiunga ancora che dei numerosi termorecettori (circa 280mila) presenti nella nostra pelle circa il 90% sono finalizzati per la percezione del freddo, in quanto quest’ultimo rappresenta uno delle fonti di stress maggiori per il nostro organismo (per esempio, abbassando il ph fisiologico, e quindi acidificando l’organismo).
Mentre, al riguardo si può osservare, nel grafico seguente, come la temperatura invernale nella fascia tropicale sia praticamente come quella estiva.
Anche il livello di umidità relativa è molto importante per i meccanismi omeostatici biologici, ed anche in questo caso possiamo osservare una importante tendenziale differenza nei valori di umidità secondo la latitudine; nei paesi extratropicali il tasso di condensazione dell’aria è generalmente più alto. Infatti, se un clima estremamente secco e arido (come quello desertico per intenderci) non è congeniale per l’uomo, tanto meno quello particolarmente umido che interferisce con molte nostre fondamentali funzioni neurofisiologiche (respirazione, termoregolazione, attività cognitiva, ecc.). Si capisce di qui l’importanza di vivere in un clima nello stesso tempo non secco e non umido, che è presente solo in alcune zone della fascia tropicale.
Nella fascia tropicale quindi regna una estate perenne, così come nell’immagine del paradiso perduto, e vi regna una abbondanza di frutti tutto l’anno, consentendo alla nostra specie frugivora di poter soddisfare costantemente la sua richiesta di cibo specifico. Infatti nella fascia tropicale gli alberi da frutto fruttificano tutto l’anno (in media due-tre-quattro volte, a seconda della specie) con una produzione scalare, garantendo un rifornimento di frutta costante. La perdita di foglie, che avviene nei climi extratropicali, è dettato dall’abbassamento della temperatura, che costringe gli alberi ad aumentare la produzione di acido abscissico (ABA); ciò accade poichè la maggior parte degli alberi da frutto, idonei per l’uomo, sono originari della fascia tropicale e subtropicale, e si trovano nella fascia extratropicale solo perché portati dall’uomo. Si da il caso che gli alberi vadano anche loro, ovviamente, sotto stress per l’ambiente ostile alla loro fisiologia, collassando in autunno con la perdita dell’apparato fogliare. Si pensi al riguardo al fico, albero della fascia subtropicale, che continuerebbe a fruttificare tutto l’anno se la temperatura non scendesse mai sotto i 15°. Si può, per esempio, vedere nel leggendario giardino di Alcinoo presente nel mito greco, l’immagine archetipica del frutteto perenne dove gli alberi da frutto producevano frutti tutto l’anno.
E’ ampiamente dimostrato come l’allungamento dell’età media della vita umana nei paesi industrializzati, riscontrabile a partire dalla prima metà del Novecento (con l’abbassamento della mortalità per malattie infettive che falcidiavano la popolazione), sia stato principalmente dovuto al notevolissimo incremento del consumo di frutta nei paesi extratropicali. Infatti, in questi ultimi di inverno non si poteva trovare praticamente frutta (tranne gli agrumi che sono non a caso tossici per l’uomo), ma con i trasporti veloci moderni e la refrigerazione si è aumentata la disponibilità del cibo specifico per tutto l’anno.
Tra gli altri elementi che emergono dall’analisi dell’importanza di vivere nel proprio ambiente specifico naturale, possiamo segnalare quello della esposizione solare; così importante per numerosi e fondamentali meccanismi fisiologici (sintesi della vitamina D, regolazione dei ritmi circadiani, alcalinizzazione del sangue, ecc.). Il benessere psicofisico prodotto dall’esposizione ad una quantità superiore di luce tutto l’anno mostra l’importanza di vivere nel proprio habitat specifico; al riguardo, si può notare come nemmeno in estate nei paesi dell’Europa mediterranea (compresa Sicilia o Andalusia), ci si nutre della quantità di luce che un abitante delle Hawaii ha a disposizione nei mesi invernali (e si consideri che le Hawaii non sono nemmeno un paese equatoriale):
HAWAAI (20° parallelo) – 6000 MED/annuali (14 MED/diurne invernali)
SPAGNA (40° parallelo) – 2500/ MED annuali (12 MED/diurne estive)
Il MED è l’unità di misura della radiazione solare assorbita.
Sentimento comune è che primavera ed estate sono le stagioni più belle, simboli di grazia per la luce ed il calore che ci donano. Non a caso molte patologie e problematiche psicofisiche trovano sollievo durante queste stagioni. Molti riti antichi celebravano l’arrivo della primavera per i doni della terra che portava con se. La stessa festa del Natale (da nascita) celebrava in tutte le culture la rinascita del Dio Sole (non a caso la parola dio significa luce), durante il solstizio invernale.
L’attrazione benefica esercitata dalla luce e dal calore trova conferma nel fatto che numerose patologie aumentano la loro incidenza in funzione della latitudine, cioè per il solo fatto che si vive più lontani dall’equatore.
I grafici qui sotto si riferiscono, a titolo d’esempio, ad una patologia tumorale e ad una neurodegenerativa, ma lo stesso discorso si potrebbe fare per numerose altre patologie come: tumore alla prostata ed al colon, melanoma, osteoporosi, carie, ictus, ecc.
Gli stessi fenomeni depressivi si accentuano nei paesi extratropicali (soprattutto nei paesi nordici) soprattutto dopo la fine dell’estate; sono diffusi soprattutto i fenomeni di Seasonal Affective Disorder (SAD), cioè sindrome affettiva stagionale.
Il freddo, la poca luce, la vita al chiuso e la difficoltà di trovare il proprio cibo specifico sono fonte di grande stress psicofisico (basti vedere l’alto consumo di alcol e droghe varie). Inoltre storicamente i popoli extratropicali, in virtù di un alimentazione fortemente aspecifica (prevalentemente carnea) si sono dimostrati tra i più aggressivi e violenti: americani, inglesi, tedeschi, olandesi, spagnoli, portoghesi, francesi, italiani, russi, cinesi, giapponesi, ma anche unni, mongoli, vandali, goti, arabi, assiri ecc. La storia delle conquiste coloniali o delle guerre mondiali, solo per citare gli esempi più vistosi, parla da sola.
La civiltà nasce fuori dai tropici, poiché l’uomo ha dovuto crearsi un habitat artificiale ed inventarsi un alimentazione aspecifica per poter vivere dove non potrebbe e dovrebbe vivere, impegnandosi in una operazione su vasta scala di trasformazione (e distruzione) del pianeta per riuscire a vivere fuori dal suo ambiente originario, e questo con tutte le conseguenze che stiamo pagando a livello globale ormai da diversi millenni, in termini biologici, economici, ecologici e sociali.
Si tenga presente infatti che la maggior parte del cibo aspecifico consumato oggigiorno è di origine extratropicale, cioè un cibo che non sarebbe naturalmente presente nel proprio habitat tropicale. Infatti, la maggior parte sia degli animali da allevamento (pecore, capre, maiali, cavalli, ecc; così come quelli domestici: cane e gatto) e dei vegetali addomesticati e coltivati (frumento, orzo, avena, segale, noce, castagne, soia, ecc.) sono prevalentemente di origine extratropicale, la loro eventuale presenza al di là del loro areale di origine è dovuta solo per l’intervento umano. Qui sotto mostriamo i grafici del frumento, il cereale principe della dieta occidentale, a seguire l’orzo, invece, il cereale principe delle prime civiltà mesopotamiche; infine mostriamo l’areale di diffusione del noce e del castagno, i cui semi oleosi sono stati abbondantemente consumati sia nell’antichità che in epoca moderna.
Come conseguenza, della mancanza di cibo specifico fuori dalla fascia tropicale, abbiamo dovuto trasformare il mondo, che è divenuto un immenso spazio fisico destinato ad allevare e coltivare, cioè per produrre un cibo che non esiste in natura per noi. Questa mutazione alimentare ormai riguarda tutto il globo, per via della colonizzazione planetaria ad opera delle civiltà extratropicali. La produzione di cibo aspecifico però non è senza conseguenze, anzi sono di proporzioni senza precedenti. Basti considerare che agricoltura ed allevamento occupano circa il 90% del territorio disponibile per l’uomo (cioè, antropizzabile): circa 4,7 miliardi di ettari di superficie su poco più di 5,2 miliardi di ettari disponibili.
Inoltre, la zootecnia e l’agrotecnia sono enormemente energivore, cioè comportano un consumo spaventoso di risorse: acqua, petrolio, minerali, ecc.
Si può osservare, dai grafici qui sopra, l’abissale differenza dell’impatto ambientale invece tra la frutta e la produzione del resto del cibo aspecifico (già von Humboldt più di due secoli fa affermava che la stessa quantità di terreno che potrebbe produrre 15 kg di grano o la massimo 45 kg di patate, potrebbe produrre ben più di 1800 kg di banane !).
Come dicevamo, quindi, ciò comporta la distruzione dell’intero ecosistema che non si produrrebbe se consumassimo il nostro cibo elettivo: la frutta. E, magari ai Tropici.